"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

domenica 28 aprile 2013

CONSIDERAZIONI SOGGETTIVE, LEGATE ALLA MIA ESPERIENZA, SULLA “MEMORIA” DI FABRIZIO BARCA


Ho letto giorni fa con stupito interesse e timore il documento-memoria di Fabrizio Barca. Desideravo da allora scrivere come quella riflessione ha impattato con la mia esperienza: politica di un tempo, umana di sempre. Lo faccio ora.
Ha provocato in me stupore, perché il ragionamento che conduce Barca, pur connettendosi a vicende reali e a un dibattito in corso, sfonda da tutte le parti la fitta cappa che da trent'anni vanno intrecciando intorno a noi luoghi comuni assai , resistenti, che ci hanno resi prigionieri: il rigido discorso generazionale o anti-generazionale, il ricondurre tutte le disgrazie che abbiamo passato e stiamo passando a una questione di “tradimento” e non anche e soprattutto al profondo sonno del pensiero e all’uccisione dell’esperienza.  Inoltre, anzi soprattutto, pur parlando di "partito" e di partiti in quasi tutto il discorso, non dà l'impressione di un ennesimo tentativo di risolvere i problemi con proposte meramente organizzative, vizio che ha cominciato a farsi strada, per quel che mi ricordo, a partire dalla fine degli anni settanta e non ha più abbandonato la sinistra.

BREVE INCURSIONE NEL PASSATO

Ricordo le infinite discussioni organizzative nel Manifesto - ne avevo fatto parte dal 1969 – durante il suo declino, e poi quando stava per confluire, per buona parte, nei Ds.
Poi mi allontanai sempre più dalla politica attiva perché non trovavo più un mio spazio, sicuramente anche per miei limiti e mia personale stanchezza e debolezza.  Comunque presi a un certo punto la tessera dei Ds e la restituii nel 1993, il giorno dopo la venuta di Chicco Testa a Bergamo. Aveva chiuso il discorso sulla Lega in crescita così: - Compagni, la Lega è un fenomeno di protesta. Punto.
E continuai a “far politica” nel mio lavoro, cercando di essere un’insegnante decente (non so se ci sono riuscita del tutto) e di rompere, all’occorrenza, le omertà di categoria, gli sbarramenti e gli pseudo-specialismi, anche teorici, tra settori del sapere.
Intanto: il discorso (parlo del discorso politico, che veniva condotto nei luoghi della politica e della società, non del discorso specialistico e accademico che non è mai morto) cominciò ad agonizzare nei tempi più duri del terrorismo e poi morì con il craxismo. Craxi fu un grande castigatore del discorso politico diffuso. Ricordo quando passava di fronte a uno schermo televisivo e con una battuta liquidava un'opinione contraria alla sua o distruggeva un avversario politico.
Si svilupparono in quegli anni le televisioni commerciali. Ricordiamo che cosa poi avvenne: sempre più slogan, uso di metafore distruttive, un linguaggio "dissacratorio" in parte sessantottino e poi settantasettino, che si fece, caricato di volgarità nuove e ad alta densità, linguaggio di una gran parte di persone di potere o che aspiravano a diventarlo. E questa volta, in un tragitto dall'alto al basso, diventò linguaggio del popolo, di buona parte del giornalismo, della televisione, della satira, dei comici ecc. ecc.. Piogge di monetine per punire, slogan feroci, sintesi sintesi sintesi, fatti non parole, abbasso quelli che fanno solo bla bla bla, noi non siamo intellettuali, ecc.ecc..
Crisi della grande industria, dell’illusione dell’”egemonia operaia”, allargamento di un precariato che, oltre che devastatore, è fatto di una miriade di condizioni sociali ed umane difficili da raccogliere e capire.
Siamo all'oggi.

PERCHÉ TROVO INTERESSANTE IO DISCORSO DI BARCA

Ritornando al discorso che Barca conduce sugli assetti politici e sui partiti:  ha, come ho già accennato, la capacità, parlando di partito, di alludere continuamente a contenuti e a un'idea di mondo, di aprire scenari su una società “possibile” (davvero "possibile"? chissà), discutendo di forme della politica.
Con calore e non certo con la pretesa di un'oggettività glaciale.
Alcuni punti per me particolarmente significativi:
1.      Fabrizio Barca non maschera il termine "sinistra", come si è fatto per decenni da parte di molti dirigenti del Partito Democratico, per il timore di non essere capiti da un elettorato che si considerava e si considera  di inguaribile vocazione moderata, e condizionati da componenti interne. In questo, con molta naturalezza, senza enfasi, si connette realmente all’Europa. Io vivo in Spagna da anni, considero questa mia condizione in parte privilegiata perché mi dà l’occasione di fare confronti reali, di considerare quel che avviene nel mio paese anche dall’esterno. E ricordo bene, purtroppo, quando Zapatero era considerato dai nostri “riformisti” come un estremista, perché aveva favorito una laicizzazione effettiva della società spagnola, con un chiaro riconoscimento dei diritti. E di questo e di altre cose si sente tuttora l’effetto nella vita di ogni giorno: nonostante la crisi, la disoccupazione e l’ascesa di Rajoy al potere.
2.      Fabrizio Barca pone al centro del suo discorso una straordinaria e al tempo stesso visionaria proposta: massima valorizzazione dell’esperienza, individuale e collettiva, intrinseca politicità dell’esperienza e della riflessione su di essa nell’agire politico. Non parla, come siamo abituati a sentire (pure nella estrema sinistra spagnola, purtroppo) di condanna dell’individualismo (condanna che nei giochi reali e ipocriti di potere peraltro non ha mai funzionato), ma di una mediazione fra quello che lui chiama, con limpida spregiudicatezza, “egoismo”, nel senso di “amor di sé”, e anche – aggiungo – deposito di una gran parte dell’esperienza, e l’interesse collettivo: il Partito dovrebbe divenire uno dei luoghi privilegiati in cui si mediano continuamente i diversi livelli della vita umana.
Mi pare notevole, questa proposta, nel momento in cui la politica si è distaccata dall’esperienza e dalla vita. Ricordo a tal proposito ciò che ho considerato sempre come l’eredità più significativa del Manifesto dei primi anni Settanta: l’affermazione della politicità sociale e culturale dell’esperienza di lavoro e di vita associata, da cui a quel tempo non sorgevano solo rivendicazioni, ma anche proposte e discussioni sul come si stava nella fabbrica, nella scuola, nelle professioni sanitarie... Certo, anche con errori, non lo nego. La memoria di tutto questo, di questa tensione volta a connettere problematicamente l’esperienza quotidiana con la scelta politica,  si è persa: anche negli scritti di Rossana Rossanda, che da decenni sento magniloquente e lontanissima dalla mia visione di vita.
Sicuramente, nei primi anni Settanta, i lavori e gli statuti sociali erano molto più definiti e permettevano, con la propria persistenza, un’analisi più profonda, più agevole, ragionamenti più facili, pur nella loro complessità. Oggi buona parte dei figli che sono nati da persone della mia generazione hanno attraversato molteplici condizioni lavorative e pertanto anche personali ed è difficile raccogliere in grandi coordinate la loro condizione sociale ed esistenziale. Ci vorrebbe forse un Carlo Marx del precariato intellettuale e non intellettuale, magari per essere presto superato. Se i nostri figli hanno assunto posizioni politiche di sinistra, l’hanno fatto in nome di valori generali, spesso, paradossalmente, più ideologici dei nostri, di equità e di libertà, di memorie che gli abbiamo trasmesso, o anche di rivendicazioni difensive e giustamente arrabbiate del diritto all’esistenza, più che della prefigurazione di modi di vita più felici. Infatti ai moltissimi di coloro che vivono la precarietà come disagio e privazione di parti essenziali della vita, ciò che ha concesso la politica ufficiale di sinistra, sino ad ora, è stato al massimo l’appoggio spesso puramente astratto alla rivendicazione di pane, di casa e di uno straccio di lavoro, non l’ascolto, non la curiosità, e neppure il rispetto. Questo divorzio fra politica ufficiale, anche di tendenza “progressista”, ed esperienza sociale, lavorativa e pure umana, individuale, concreta, è certo in gran parte dovuta al subbuglio che si è prodotto nel mondo del lavoro, ma anche e forse soprattutto a un irrigidimento della politica di sinistra in schemi poveri, a un suo invecchiamento, ai compromessi in cui si è incastrata (preciso a questo punto: io sono convinta che il compromesso sia una funzione fondamentale della politica e pure dell’essere umano: credo che non avrei saputo mai fare politica istituzionale perché in questo sono inabile. Ma ciò non deve far dimenticare che ci sono compromessi buoni e compromessi di basso o di infimo livello).
Mi pare di ritrovare nel discorso di Barca, nel suo “partito sperimentale”, qualcosa che mi ricorda la “soggettività politica”  che molti di noi, nei primi anni Settanta, pur in condizioni e in modi assai diversi, avevano pensato fosse da valorizzare.
Oltre tutto Barca ha spiegato in più interviste che basa questa sua proposta soprattutto sulla conoscenza di realtà locali, in cui amministratori del Pd, volontariato, forme di cooperazione di vario tipo costituiscono un primo o secondo livello di mediazione fra interessi particolari e interessi generali, che un partito del progresso dovrebbe accogliere, non ignorare nella formulazione di una linea di azione politica che deve continuamente essere verificata e, all’occorrenza, modificata. Quindi il locale proiettato sul mondo intero. Il locale, sottintende Barca, non è necessariamente follia identitaria ignobile e razzista.
3.      Un terzo proposito che discende da queste premesse sta nella costruzione di ·
“un partito di mobilitazione cognitiva”: che ovviamente capovolge sia l’esaltazione dell’ignoranza che ha avuto tanto spazio in questi decenni (“fatti, non parole” ecc. ecc.), sia la concezione del sapere come qualcosa di accedemico in senso deteriore, qualcosa di fisso, di cui solo pochi sono depositari.
4.      Un quarto punto importante  è lo svincolamento dei partiti dallo stato. Un punto che per me andrebbe discusso, articolato, precisato.
In molti abbiamo percepito nel tempo che l’appartenenza politica, anzi un’appartenenza che si accompagnasse con la rinuncia a portare obiezioni di fondo, a suscitare discussioni troppo vive e polemiche troppo accese, con una pratica costante di autocontrollo (e autocastigo) delle idee, poteva diventare pure uno strumento di affermazione personale (non solo nella vita politica).
Che una persona che entra nelle istituzioni esca di fatto dal partito (come auspica Barca), che non le sia permesso fare il pendolo fra le une e l’altro, è certamente cosa di grande interesse, che però andrebbe approfondita.
Anche se non vedo chiara l’articolazione di questa proposta - o forse mi pare enormemente ambiziosa -, mi piace moltissimo che Barca affidi la rinascita di una politica di sinistra alla discussione, alla contrapposizione, all’autonomia del partito rispetto allo stato, anche quando il partito abbia vinto le elezioni e abbia espresso un “suo” governo. Perció anche i movimenti “antagonisti”, non violenti, vanno ascoltati e con loro si deve discutere seriamente (questo sta accadento in Spagna, soprattutto sul rapporto fra sfratti e banche, nonostante la repressione poliziale voluta dal Partido Popular).
5.      Ultima mia considerazione (lascio ovviamente fuori molti altri aspetti e proposte di Barca): ho cercato nella Memoria e non ho trovato neppure una volta la parola “gente”. Grazie, Fabrizio Barca.
UN AUGURIO

In una puntata di Zeta, intervistato da Gad Lerner, Fabrizio Barca ha detto che non lascerà il Pd, purmacchiato dalla vergogna del 101 che hanno silurato, restando nascosti, Romano Prodi.
 Però non se ne starà quieto, ad aspettare gli eventi. 100 sezioni del Partito democratico l’hanno chiamato a discutere la sua proposta politica, che potrà essere integrata, modificata e riscritta nel corso di questi incontri.
E cita, giustamente a mio parere, anche il discorso che Roberto Saviano hatenuto in una puntata di Servizio Pubblico, a proposito di azione politica, di allegria, di progetto, di cambio e di sconfitta del dittatore del Cile.
 
Io conto sui cavalieri erranti che hanno voglia di cambiare il mondo, mi ostino a non credere che siano necessariamente destinati alla sconfitta.

Chiediamo al Dio dei credenti e pure a quello dei non credenti di mettersi per una volta d’accordo fra loro e di permettere che  questo Don Quijote dei nostri giorni (che del cavaliere errante cervantino ha anche l’aspetto) riesca a fare almeno una gran parte di quel che si propone.

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